Amare il proprio DCA: è possibile?

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Amare il proprio disturbo del comportamento alimentare (DCA): è possibile?

Sì, è possibile amare il proprio disturbo alimentare.

Sebbene possa sembrare paradossale, doloroso o persino provocatorio affermarlo, ci sono molte persone che sviluppano un attaccamento profondo, intimo e complesso al proprio DCA, al punto da percepirlo non solo come una parte di sé, ma come qualcosa di prezioso, rassicurante e, in certi momenti, persino indispensabile.

Amare il proprio disturbo alimentare significa essere affezionati a un certo modo di vivere il rapporto con il cibo, con il corpo, con il controllo, con il dolore e con il senso di identità che da tutto questo deriva.

È un amore che si struttura silenziosamente nel tempo, spesso senza essere nominato, ma che si manifesta in comportamenti protettivi, nel rifiuto di lasciarlo andare, nella gelosia verso chi tenta di metterlo in discussione.

Come in tutte le relazioni significative, anche in questa può emergere il desiderio che nessuno interferisca, che nessuno osi cambiare ciò che, pur doloroso, ha assunto una funzione di stabilità e contenimento.

Questo tipo di amore non è un sentimento esplicito, razionale o consapevole, e certamente non si esprime nei termini classici dell’affetto sano: è un legame simbolico, spesso difensivo, in cui il disturbo diventa un rifugio e una voce interiore con cui si costruisce un dialogo costante.

Nel paragrafo che segue capiremo quali sono le caratteristiche che rendono “amabile” un DCA da chi ne soffre e come si manifesta questo amore.

Non voler Guarire da un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA): perché succede?

Come già accennato, ci sono dei tratti nei disturbi alimentari che, pur essendo chiaramente disfunzionali e patologici, possono essere vissuti come rassicuranti, familiari, in certi momenti addirittura desiderabili da chi ne soffre.

È proprio in questa ambiguità che si nasconde uno degli aspetti più complessi e insidiosi del disturbo della nutrizione e dell’alimentazione: la sua capacità di agganciarsi a bisogni profondi, di rispondere a emozioni ingestibili, di offrire un ordine interno che, seppur malsano, sembra dare senso e coerenza.

Alcune caratteristiche lo rendono, in modo paradossale, “amabile”, facilitando il suo mantenimento nel tempo.

Nello specifico, parliamo di:

  1. Rassicurazione: il disturbo alimentare può offrire un senso di sicurezza perché costruisce un rituale prevedibile, un copione stabile a cui affidarsi nei momenti di caos interiore. Sapere di poter ricorrere a determinati comportamenti alimentari – come abbuffarsi, digiunare, vomitare, contare le calorie in modo ossessivo o esercitare un controllo ferreo sul cibo – permette alla persona di sentire di avere a disposizione una strategia personale, intima, che la “protegge” da emozioni troppo intense o minacciose. In questo senso, il DCA diventa una zona di comfort, una risposta automatica ma rassicurante, quasi come un’abitudine che calma e dà l’illusione che tutto sia sotto controllo.
  2. Percezione di controllo: una delle funzioni centrali di molti DCA è quella di fornire un senso illusorio di controllo. Attraverso il cibo e il corpo, la persona riesce a sentirsi padrona di almeno un ambito della propria vita, anche quando tutto il resto appare incerto, confuso o ingestibile. Il controllo può manifestarsi con la restrizione calorica, con l’osservanza rigida di regole autoimposte, con la possibilità di alternare comportamenti opposti come mangiare e poi compensare. In ogni caso, l’alimentazione diventa una leva attraverso cui regolare il senso di sé e l’ambiente esterno. Questo falso controllo diventa gratificante, e la sua perdita viene vissuta come una minaccia alla stabilità psichica.
  3. Regolazione emotiva: molte persone usano inconsapevolmente il DCA come uno strumento per regolare le emozioni. Il cibo diventa il mezzo per evitare, anestetizzare o scaricare stati emotivi dolorosi. Ci si abbuffa per sfuggire al senso di vuoto, si vomita per liberarsi del senso di colpa, si digiuna per punirsi o ritrovare un’illusione di purezza. In questa dinamica, il disturbo non è solo un insieme di comportamenti: è una strategia emotiva, una modalità appresa per gestire il dolore interno. E poiché in apparenza “funziona”, almeno nell’immediato, viene mantenuto e protetto con convinzione, anche quando le sue conseguenze sono distruttive.
  4. Illusione di annullamento: uno dei motivi per cui alcuni comportamenti alimentari disfunzionali sembrano “funzionare” è la percezione di poter fare una scelta e poi cancellarne le conseguenze. Ad esempio, chi soffre di bulimia può decidere di abbuffarsi, convinto di poter “azzerare” tutto attraverso il vomito. Questo meccanismo diventa un modo per autorizzarsi a vivere un’emozione intensa e poi neutralizzarla. Ovviamente non è così: le conseguenze psicologiche e fisiche restano, ma nella percezione immediata della persona il disturbo offre una sorta di “tasto reset” che diventa irresistibile. Questo rinforza la convinzione che il DCA sia una risorsa e non un nemico.
  5. Struttura e identità: il disturbo alimentare può dare un senso di identità, di appartenenza e di coerenza interna. In alcuni casi, la persona inizia a definirsi attraverso il proprio rapporto con il cibo e il corpo, fino a farne una parte centrale del proprio essere. “Io sono quella che resiste alla fame”, “io sono quella che non perde mai il controllo”, “io sono quella che si punisce mangiando”. In questo modo, il DCA non è più un comportamento esterno da cambiare, ma una parte dell’immagine di sé, qualcosa che si conosce e che dà ordine, uno stile di vita che, anche se disfunzionale, dà l’impressione di avere una direzione. Questo rende difficile anche solo immaginare la vita senza di esso.
  6. Ambivalenza: in molte persone emerge una forma di ambivalenza affettiva nei confronti del DCA: lo si odia e lo si ama, lo si teme e lo si protegge. Può addirittura comparire una forma di gelosia verso chi tenta di “portarlo via”, come un terapeuta, un familiare, un partner. La persona può sentire che nessuno può capire davvero quello che il disturbo rappresenta, e vivere qualsiasi intervento esterno come una minaccia a qualcosa di segreto e vitale. Questo legame affettivo – per quanto distruttivo – può avere tutte le caratteristiche di una relazione tossica: intensa, coinvolgente, difficile da spezzare, ma profondamente logorante.
  7. Gratificazione narcisistica e riconoscimento: in alcune situazioni, il disturbo alimentare viene rinforzato anche dal riconoscimento esterno: complimenti per la magrezza, ammirazione per il “controllo”, attenzione per il corpo. Questo rinforzo sociale, anche se spesso inconsapevole e superficiale, può alimentare il senso di efficacia, rendendo il disturbo ancora più centrale. Non è raro che alcune persone provino una forma di soddisfazione narcisistica nel percepirsi “diverse”, “disciplinate”, “forti” rispetto agli altri. Questo contribuisce a rendere il disturbo qualcosa da cui non ci si vuole separare, perché offre gratificazioni che, pur ambigue, sembrano irrinunciabili.

Tutte queste caratteristiche aiutano a comprenderne il potere seduttivo e la sua resistenza al cambiamento.

Amare un DCA, in questo senso, non significa non soffrirne: significa piuttosto sentire che, per quanto doloroso, offre qualcosa che sembra utile, protettivo o necessario.

Se stai leggendo questo articolo e soffri di un disturbo del comportamento alimentare, sappi che non vogliamo essere giudicanti nei tuoi confronti.

Non vogliamo dirti cosa devi fare, né imporgli un nome, né tantomeno invalidare ciò che stai vivendo.

Sappiamo bene quanto possa essere complicato lasciar andare un DCA, quanto possa sembrare impossibile immaginarsi senza di lui, quanto a volte possa addirittura rappresentare una forma di sicurezza, un punto fermo, una compagnia costante.

E sappiamo anche quanto possa essere doloroso sentire il giudizio degli altri, di chi osserva da fuori senza sapere cosa significhi davvero, senza comprendere il legame sottile ma profondo che si è instaurato.

Immaginiamo la fatica che comporta tutto questo: i pensieri ricorrenti, le ambivalenze, i rituali, i sensi di colpa, la paura di cambiare e insieme il desiderio di sentirsi finalmente liberi.

Però è importante che tu sappia anche questo: come ogni relazione tossica, anche quella con un DCA è destinata a finire.

E a volte non perché lo si voglia, ma perché si è costretti, quando il dolore supera la soglia, quando il corpo inizia a cedere, quando la mente si spegne, quando vivere in quel modo non è più sostenibile.

Non vogliamo strapparti via con la forza il tuo DCA, né estirparlo come se fosse qualcosa da cancellare in fretta: noi di GAM-Medical, Centro per DCA, vogliamo camminare con te, cercando di comprenderlo, rispettarlo, decostruirlo insieme, e poi sostituirlo gradualmente con qualcosa che ti appartenga davvero.

Non con un vuoto, ma con alternative vere, concrete, vitali. Vogliamo aiutarti a capire di cosa hai realmente bisogno: affetto, riconoscimento, controllo, voce, presenza, contenimento. Il disturbo ha provato a darti tutto questo a modo suo, e forse per un po’ c’è riuscito.

Ma ora puoi iniziare a pensare che esistano altri modi.

Il centro GAM-Medical per i disturbi alimentari conosce bene le insidie di questi legami, conosce la sottile dipendenza che si può instaurare, la paura di guarire, il senso di smarrimento che si prova quando si inizia un percorso.

Ma conosce anche i modi per uscirne; lavora ogni giorno con persone che, come te, lottano in silenzio, e lo fa con professionisti esperti, con psicoterapeuti che sanno accogliere senza giudicare e intervenire senza invadere.

Se ti riconosci, se anche solo una parte di te vorrebbe iniziare a cambiare qualcosa, contattaci: insieme possiamo iniziare a riscrivere la tua storia, a piccoli passi, rispettando i tuoi tempi, ma con l’obiettivo chiaro di tornare a vivere davvero.

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