Non essere creduti dopo un trauma significa scoprire che, oltre all’evento, esiste una seconda violenza: quella di dover dimostrare ciò che si è vissuto.
Esiste un’idea diffusa, tanto rassicurante quanto falsa, secondo cui il trauma coincida con un evento preciso e circoscritto nel tempo. Un incidente, una violenza, un abuso, una perdita improvvisa: qualcosa accade, lascia una ferita, e poi — almeno in teoria — inizia il processo di guarigione.
In realtà, per molte persone, il trauma non finisce con l’evento traumatico in sé. Anzi, spesso comincia davvero nel momento in cui cercano di raccontarlo e si scontrano con l’incredulità, il dubbio, la minimizzazione o la negazione da parte degli altri.
Non essere creduti dopo un trauma non è solo un’esperienza dolorosa sul piano relazionale o sociale: è, a tutti gli effetti, un’ulteriore esperienza traumatica. Una ferita che si sovrappone a quella originaria, la complica, la approfondisce, la rende più difficile da elaborare. In questo senso si parla spesso di trauma secondario o trauma relazionale, perché il danno non nasce da ciò che è accaduto, ma dalla risposta — o dalla mancanza di risposta — dell’ambiente circostante.
Questo articolo esplora cosa significa non essere creduti dopo un trauma, perché accade così spesso, quali meccanismi psicologici sono in gioco — soprattutto quelli legati alla memoria traumatica e alla frammentazione del racconto — e quali conseguenze profonde questo vissuto può avere sull’identità, sull’autostima e sulla possibilità stessa di guarire.
Il bisogno umano di essere creduti
Essere creduti non è un bisogno accessorio o superficiale. È un bisogno profondamente umano, legato alla nostra sopravvivenza psichica e sociale. Raccontare ciò che ci è accaduto e trovare qualcuno che ascolti, riconosca e validi la nostra esperienza è uno dei modi principali attraverso cui diamo senso al dolore e lo rendiamo condivisibile.
Quando una persona racconta un trauma, non sta semplicemente fornendo informazioni. Sta mettendo in gioco la propria vulnerabilità, la propria versione del mondo, la propria identità. Sta dicendo: “Questo è ciò che mi è successo, e questo è ciò che mi ha fatto diventare”. Essere creduti significa ricevere un messaggio implicito ma potentissimo: la tua esperienza ha valore, la tua percezione è legittima, tu esisti.
Quando questo riconoscimento viene negato, il messaggio che arriva è l’opposto: forse stai esagerando, forse ti sbagli, forse non è andata così, forse il problema sei tu. È un messaggio che non colpisce solo il racconto, ma la persona stessa.
La seconda ferita: quando l’incredulità diventa un secondo trauma
Molte persone che hanno vissuto un trauma descrivono l’esperienza di non essere credute come più devastante dell’evento originario. Questo può sembrare paradossale, ma non lo è. Il trauma iniziale spesso avviene in una condizione di impotenza, paura o confusione. Il trauma della non credibilità, invece, avviene dopo, quando la persona cerca aiuto, comprensione, protezione.
È in quel momento che ci si aspetta — legittimamente — una risposta riparativa. E quando questa risposta non arriva, o peggio, quando arriva sotto forma di dubbio, sospetto o giudizio, il senso di sicurezza può crollare definitivamente.
Non essere creduti può significare:
- non essere presi sul serio da familiari o amici
- essere messi in discussione da professionisti (medici, terapeuti, forze dell’ordine)
- subire interrogatori che somigliano a processi
- essere accusati di mentire, esagerare o confondere
- sentirsi dire che “non è possibile ricordare così”
- essere spinti a ritrattare o a ridimensionare il racconto
Perché così spesso le persone traumatizzate non vengono credute?
La mancata credibilità delle persone traumatizzate non è un caso isolato o raro. È un fenomeno sistemico, che nasce dall’incontro tra i meccanismi del trauma e le aspettative culturali su come una “vera vittima” dovrebbe comportarsi e raccontare.
Uno dei motivi principali per cui non si viene creduti è che il trauma altera profondamente il funzionamento della memoria e del racconto. Ma questo fatto, ampiamente riconosciuto dalla psicologia e dalle neuroscienze, è ancora poco compreso a livello sociale.
Il mito del racconto coerente
Viviamo in una cultura che attribuisce grande valore alla coerenza narrativa. Ci aspettiamo che una storia vera sia:
- lineare
- cronologicamente ordinata
- ricca di dettagli
- stabile nel tempo
- raccontata sempre allo stesso modo
Quando una persona non riesce a fornire un racconto di questo tipo, scatta immediatamente il sospetto. Eppure, proprio questa incapacità è uno degli indicatori più comuni di un’esperienza traumatica.
Il trauma non viene immagazzinato nel cervello come un normale ricordo autobiografico. Durante un evento traumatico, il sistema nervoso entra in uno stato di allerta estrema. Alcune aree del cervello, in particolare quelle coinvolte nell’organizzazione narrativa e temporale, riducono la loro attività. Altre, legate alle emozioni e alle sensazioni corporee, diventano iperattive.
Il risultato è una memoria frammentata, disorganizzata, spesso priva di una sequenza temporale chiara.
Vuoti di memoria e frammentazione traumatica
Molte persone traumatizzate sperimentano:
- vuoti di memoria: parti dell’evento che non riescono a ricordare
- ricordi a flash: immagini, sensazioni o suoni isolati
- confusione temporale: difficoltà a collocare gli eventi nel tempo
- ricordi che emergono gradualmente, a distanza di mesi o anni
Questi fenomeni non sono segni di menzogna. Sono il risultato di meccanismi di difesa neurobiologici. La mente, per proteggersi, frammenta l’esperienza, dissocia, mette a distanza ciò che è troppo doloroso da integrare.
Tuttavia, dall’esterno, questo funzionamento appare sospetto. Se una persona “non ricorda tutto”, se cambia versione, se aggiunge dettagli col tempo, viene spesso percepita come incoerente o inattendibile.
Le ritrattazioni continue: non riuscire a “mettere insieme i pezzi” dell’evento traumatico
Un altro motivo frequente di perdita di credibilità è la tendenza a ritrattare, correggere, ridimensionare il proprio racconto. Questo comportamento viene spesso interpretato come segno di falsità o manipolazione, ma in realtà è molto più spesso un tentativo disperato di adattarsi all’incredulità altrui.
Quando una persona si accorge che ciò che dice viene messo in dubbio, può iniziare a:
- eliminare parti del racconto
- attenuare la gravità di ciò che è successo
- assumersi colpe che non ha
- dire “forse mi sbaglio”
- mettere in discussione la propria percezione
Queste ritrattazioni non nascono dal desiderio di mentire, ma dal bisogno di essere accettati, ascoltati, creduti almeno in parte. È una strategia di sopravvivenza relazionale: se dico meno, forse mi crederanno di più.
Il dubbio traumatico interiorizzato: quando la persona smette di credere a sé stessa
Uno degli effetti più devastanti della non credibilità è l’interiorizzazione del dubbio. Quando il messaggio “non sei affidabile” viene ripetuto abbastanza a lungo, la persona inizia a farlo proprio.
Si comincia a pensare:
- “Forse sto esagerando”
- “Forse l’ho frainteso”
- “Forse è colpa mia”
- “Forse me lo sono inventato”
Questo auto-dubbio è profondamente destabilizzante. Il trauma, che già compromette il senso di sicurezza, finisce per compromettere anche il senso di realtà. La persona non sa più di chi fidarsi: degli altri o di sé stessa.
In alcuni casi, questo porta a una forma di gaslighting interiorizzato, in cui la voce che mette in dubbio l’esperienza traumatica non è più esterna, ma interna.
Il ruolo della vergogna nel racconto del proprio trauma
La vergogna è una componente centrale sia del trauma che della non credibilità. Raccontare un trauma espone a giudizi impliciti o espliciti: perché non hai reagito? perché non sei scappato? perché non l’hai detto prima?
Quando il racconto viene messo in dubbio, la vergogna si intensifica. Non solo “mi è successo qualcosa di terribile”, ma “forse c’è qualcosa di sbagliato in me se nessuno mi crede”.
La vergogna tende a silenziare. Molte persone smettono di raccontare, smettono di chiedere aiuto, smettono di nominare ciò che è accaduto. Il trauma rimane così isolato, non condiviso, e proprio per questo più difficile da elaborare
Credere non significa avere una comprensione completa, logica e ordinata del racconto. Credere significa riconoscere che la persona sta raccontando la propria verità soggettiva, anche quando è frammentata, confusa o contraddittoria.
Il trauma non chiede di essere interrogato come un fatto giudiziario. Chiede di essere ascoltato come un’esperienza umana.



