Il cibo può diventare un potente strumento anestetizzante, una sorta di rifugio emotivo a cui ci si aggrappa nei momenti di vulnerabilità profonda.
In particolare, questo meccanismo emerge con chiarezza nei disturbi del comportamento alimentare come la bulimia e il binge eating disorder (disturbo da alimentazione incontrollata), entrambi disturbi caratterizzati da episodi di abbuffate spesso preceduta da emozioni forti e intollerabili che, in queste condizioni, vengono gestite proprio tramite il potere anestetizzane del cibo.
L’effetto anestetizzante del cibo lo conosciamo, in misura minore, un po’ tutti.
Pensiamo a quello che succede quando mangiamo tanto: quel torpore dolce e inevitabile che ci coglie all’improvviso, quel senso di pesantezza che avvolge il corpo e la mente, rallentando tutto, come se il mondo intorno perdesse improvvisamente intensità e urgenza.
In Italia lo chiamiamo familiarmente abiocco, un termine che richiama con tenerezza quella sonnolenza post-prandiale che segue un pasto abbondante, quando ci si sente sazi, molli, e magari ci si lascia andare sul divano con la testa che ciondola.
È un’esperienza che tutti conosciamo: il corpo inizia a rallentare, le palpebre si fanno pesanti, e si ha solo voglia di chiudere gli occhi e lasciarsi andare.
Se questo succede dopo un semplice pranzo domenicale, figuriamoci cosa può accadere dopo un’abbuffata, quando il cibo ingerito non è solo abbondante ma è stato spinto dentro con urgenza, in maniera compulsiva, sotto la spinta di un’emozione forte e ingestibile.
Nelle prossime righe capiremo perché il cibo ha questo potere anestetizzante e come funziona questo effetto.
Perché il Cibo Ha un Effetto Anestetizzante?
Organicamente, il cibo può essere un potente anestetico.
Nello specifico:
- Stimolazione del sistema dopaminergico e circuito della ricompensa: uno dei principali meccanismi neurobiologici che spiegano l’effetto anestetizzante del cibo è l’attivazione del sistema della ricompensa, in particolare del circuito dopaminergico. Quando consumiamo cibi altamente palatabili – ricchi di zuccheri, grassi e sale – il nostro cervello rilascia dopamina, un neurotrasmettitore associato al piacere, alla motivazione e alla gratificazione. Questo rilascio produce una sensazione di benessere immediata, simile a quella provocata da sostanze psicoattive. In pratica, mangiare qualcosa di molto gustoso genera una sorta di “onda” di piacere che temporaneamente offusca e attenua le emozioni spiacevoli o lo stress. Il cervello memorizza questa associazione e, nei momenti di malessere, spinge l’individuo a ripetere il comportamento alimentare per ottenere lo stesso effetto calmante. È per questo che si parla di un comportamento “rinforzato”: ogni volta che si risponde a un disagio emotivo con il cibo, si rafforza il legame tra malessere e abbuffata, rendendo questo meccanismo sempre più automatico e difficile da interrompere.
- Coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA): in condizioni di stress o disagio emotivo, si attiva l’asse HPA, che porta alla produzione di cortisolo, il principale ormone dello stress. Il cortisolo ha una serie di effetti sul corpo, tra cui l’aumento del desiderio di cibi ad alta densità calorica. Questi alimenti, una volta ingeriti, determinano un abbassamento dei livelli di cortisolo, creando una sorta di regolazione ormonale che contribuisce a una temporanea sensazione di sollievo. Inoltre, il cibo stesso – specialmente se consumato in abbondanza – stimola la produzione di insulina, che a sua volta influisce su altri neurotrasmettitori come la serotonina. Un pasto ricco di carboidrati semplici, ad esempio, favorisce la sintesi di serotonina, un altro neurotrasmettitore implicato nella regolazione dell’umore, dell’ansia e del sonno. Questo cocktail chimico naturale crea un effetto sedativo e calmante, simile a una vera e propria anestesia emotiva, sebbene transitoria.
- Effetto parasimpaticotonico della digestione: la digestione è un processo che attiva il sistema nervoso parasimpatico, responsabile delle funzioni corporee di riposo, rilassamento e recupero. Dopo una grande quantità di cibo – soprattutto in un contesto di abbuffata – il corpo è impegnato a metabolizzare gli alimenti, il che stimola questo sistema e favorisce uno stato fisiologico di “spegnimento”. Si verifica una sorta di rallentamento generale: il battito cardiaco si abbassa, la respirazione diventa più profonda, si avverte un senso di torpore o di sonnolenza. Tutti questi sintomi inducono una sensazione fisica di rallentamento e distacco dal tumulto emotivo iniziale. In sostanza, il corpo si ritira in se stesso per concentrarsi sulla digestione, e questo stato può essere vissuto soggettivamente come una sorta di pace o silenzio interiore, una tregua dal dolore emotivo.
- Interferenza sensoriale e sovraccarico percettivo: durante un’abbuffata, l’intensa stimolazione sensoriale – il sapore, la consistenza, la temperatura, l’odore del cibo – produce un sovraccarico percettivo che può ridurre l’attenzione rivolta verso l’interno, cioè verso le emozioni o i pensieri disturbanti. È come se il corpo e la mente venissero occupati interamente dall’azione del mangiare, lasciando poco spazio alla consapevolezza di ciò che si prova davvero. La masticazione continua, il ritmo ripetitivo del portare cibo alla bocca, la sensazione di pienezza gastrica, diventano esperienze così pervasive da zittire temporaneamente il rumore mentale. Si crea così un tipo di dissociazione corporea: il soggetto non è più centrato sul dolore psichico, ma è immerso in un’iperattività fisica e sensoriale che cattura l’intero focus dell’attenzione.
- Effetto sedativo postprandiale: dopo un episodio di alimentazione compulsiva, molte persone sperimentano una fase di sedazione. Questo non è solo il risultato della fatica digestiva, ma anche di un effetto neurofisiologico più profondo. L’enorme quantità di cibo ingerito comporta un massiccio afflusso di sangue verso l’apparato gastrointestinale, riducendo l’apporto ematico a livello cerebrale e muscolare. Questo contribuisce alla sensazione di stanchezza e torpore. Inoltre, il corpo rilascia peptidi e ormoni (come la colecistochinina e la leptina) che contribuiscono alla sazietà e hanno un effetto modulante sul sistema nervoso, favorendo la quiete e riducendo l’iperattivazione dell’amigdala, area cerebrale coinvolta nella percezione del pericolo e dell’ansia. Questo stato è simile a una vera e propria “sedazione naturale”, non voluta razionalmente ma profondamente efficace nel mettere a tacere le emozioni acute.
- Rottura del senso del tempo e sospensione della coscienza: Durante l’abbuffata, si assiste spesso a un’alterazione della percezione del tempo. Le persone riferiscono di entrare in una sorta di trance alimentare, in cui perdono la cognizione di quanto tempo è passato e di quanta quantità di cibo è stata consumata. Questo stato di coscienza modificata è assimilabile a una forma di dissociazione, in cui l’individuo si distacca temporaneamente dalla realtà e da sé stesso. Non c’è più contatto con l’ambiente, con il corpo o con la mente razionale. È un’esperienza fortemente ipnotica, che annulla momentaneamente il dolore psichico, l’ansia o la pressione emotiva. In questa sospensione, il cibo diventa un veicolo di fuga non solo dalle emozioni, ma dalla coscienza stessa. Ed è in questo contesto che l’effetto anestetico diventa più evidente: non si tratta di placare un dolore, ma di cancellare per un attimo la possibilità stessa di percepirlo.
Nel caso dei disturbi alimentari come la bulimia e il binge eating disorder, l’effetto anestetizzante del cibo assume un ruolo centrale e ricorrente.
Le abbuffate non sono episodi casuali o dettati dalla semplice gola: sono risposte automatiche e disperate a emozioni percepite come intollerabili.
Ansia, frustrazione, tristezza, rabbia o senso di vuoto profondo si presentano come urgenze emotive ingestibili, e l’unico modo che la persona trova per placarle è ricorrere al cibo, che in quel momento non nutre, ma copre, riempie, silenzia.
Il cibo viene utilizzato come una sorta di anestetico emozionale, capace di spegnere temporaneamente il dolore interno.
Dopo l’abbuffata, spesso arriva il dolore: non solo fisico, per l’eccessiva quantità di cibo ingerito, ma anche psicologico, fatto di senso di colpa, vergogna e frustrazione.
Si cerca di colmare un vuoto, ma ciò che resta è un senso di pienezza dolorosa, di malessere, di impotenza.
È per questo che si può dire che il cibo, in questi contesti, viene utilizzato per anestetizzarsi o per riempire vuoti emotivi.
Ma quando lo si fa in modo così violento, compulsivo e ripetuto, il corpo e la mente non trovano pace: trovano solo un sollievo effimero che lascia dietro di sé nuove ferite da guarire.
Se anche tu ti riconosci nell’utilizzo del cibo come mezzo per colmare vuoti interiori o per anestetizzare emozioni difficili da gestire, potresti trovarti a vivere una forma di disagio legata al comportamento alimentare.
Potrebbe trattarsi di bulimia, nel caso siano presenti anche condotte di eliminazione come vomito autoindotto o uso di lassativi; oppure di binge eating disorder, se le abbuffate avvengono senza comportamenti compensatori; o ancora di emotional eating o di abbuffate compulsive che, pur non configurandosi necessariamente come un disturbo diagnosticabile, generano comunque sofferenza e perdita di controllo.
In tutti questi casi, a prescindere dalla presenza o meno di una diagnosi di DCA, è importante sapere che non sei solo e che è possibile chiedere aiuto: puoi rivolgerti ai professionisti della salute mentale della clinica GAM-Medical, Centro Specializzato nella cura dei disturbi del comportamento alimentare (DCA), per ricevere un supporto adeguato, empatico e personalizzato.