L’eziologia dei disturbi alimentari è estremamente complessa e variegata, e nel corso degli anni numerosi approcci teorici e modelli clinici hanno cercato di individuarne le cause, spesso mettendo in luce la natura multifattoriale di questi disturbi, in cui si intrecciano componenti biologiche, psicologiche, relazionali e culturali.
In particolare, quando si parla di anoressia nervosa, si è sviluppato nel tempo un ampio filone della letteratura clinica e psicoterapeutica che attribuisce un ruolo di particolare rilevanza al contesto familiare, sia come potenziale fattore predisponente che come possibile ambiente di mantenimento della sintomatologia.
Non è raro, infatti, che l’anoressia venga definita come una “malattia familiare”, non tanto nel senso di una trasmissione genetica diretta, quanto piuttosto per il fatto che essa si manifesta spesso come espressione o sintomo di dinamiche relazionali disfunzionali all’interno del sistema familiare.
In molte di queste prospettive, l’individuo anoressico – spesso una figlia adolescente o giovane adulta – viene interpretato come la “paziente designata”, ovvero la portavoce silenziosa di un disagio più ampio che attraversa l’intera famiglia.
Il sintomo alimentare diventa così un modo per esprimere ciò che non può essere detto, una modalità di comunicazione alternativa in contesti familiari in cui le emozioni possono essere represse, negate o eccessivamente controllate.
All’interno di questo approccio, un’attenzione particolare viene rivolta alla figura genitoriale di sesso femminile, in particolare alla madre, alla quale viene spesso attribuito un ruolo centrale nella strutturazione dell’identità e del comportamento alimentare della figlia.
Senza voler semplificare o patologizzare il ruolo materno, molte ricerche si sono concentrate proprio su questa relazione specifica per cercare di comprendere meglio il senso profondo dell’anoressia nel suo contesto relazionale primario.
Di tutto questo parleremo in modo più approfondito nei prossimi paragrafi, analizzando nel dettaglio i principali contributi teorici e clinici sul tema.
Che Ruolo ha la Madre nell’Insorgenza dell’Anoressia Nervosa della Figlia: la Prospettiva Sistemico-Relazionale
L’eziologia dell’anoressia nervosa è complessa, multifattoriale e tuttora oggetto di ampio dibattito all’interno della letteratura scientifica e clinica.
Non esiste una causa univoca e definitiva, ma piuttosto una rete di fattori biologici, psicologici, relazionali e socio-culturali che concorrono all’insorgenza e al mantenimento del disturbo.
Uno dei filoni più rilevanti nella storia degli studi sull’anoressia si è concentrato sul ruolo delle dinamiche familiari, in particolare sul legame tra madre e figlia, evidenziando come in certi casi l’ambiente familiare possa influenzare in modo significativo la costruzione dell’identità, del corpo e del senso di controllo.
A partire dagli anni ’60, con figure pionieristiche come Mara Selvini Palazzoli e Hilde Bruch, si è iniziato a osservare l’anoressia non più solo come un disturbo del comportamento alimentare, ma come l’espressione di un disagio profondo legato alle relazioni familiari, alla regolazione dell’autonomia e all’identità personale.
Hilde Bruch, in particolare, ha descritto in modo incisivo questo quadro nella sua celebre opera divulgativa La gabbia dorata, in cui racconta come molte giovani anoressiche crescano all’interno di famiglie apparentemente perfette, con genitori controllanti, protettivi e attenti all’apparenza, dove viene promosso un ideale di perfezione e successo.
In queste dinamiche, la figlia può interiorizzare l’idea che l’amore sia condizionato dalla prestazione, e che la propria identità debba essere costruita attraverso il controllo assoluto di sé, incluso il corpo e l’alimentazione.
Secondo questa prospettiva, l’anoressia diventa una forma di comunicazione silenziosa, una protesta che non riesce a prendere forma verbale.
Il rifiuto del cibo non è solo un desiderio di magrezza, ma una strategia per riappropriarsi di un potere personale, per affermare una volontà e una separazione in un contesto dove tutto è regolato, previsto, fuso.
In questo senso si inserisce anche la visione sistemico-relazionale di Salvador Minuchin, che nel 1974 introdusse il concetto di famiglie invischiate: sistemi familiari in cui i confini tra i membri sono sfumati o assenti, dove l’individualità è sacrificata alla coesione, e l’autonomia è percepita come una minaccia.
In questi contesti, il sintomo anoressico rappresenterebbe una forma estrema di differenziazione, un modo attraverso cui la ragazza riesce finalmente a dire “io” in un ambiente che non ha lasciato spazio a questa affermazione.
Queste riflessioni portarono negli anni ’70 e ’80 allo sviluppo di terapie familiari per l’anoressia, con l’intento di lavorare non solo sul comportamento alimentare, ma anche sulle dinamiche relazionali sottostanti.
Tuttavia, nonostante abbiano offerto spunti terapeutici utili, le terapie familiari non si sono rivelate sufficienti nella maggior parte dei casi per garantire una remissione stabile del disturbo.
L’evoluzione della pratica clinica ha quindi portato all’emergere di un approccio più strutturato, basato sull’intervento multidisciplinare, considerato oggi il modello più efficace.
Il trattamento dell’anoressia nervosa, infatti, si fonda sull’affidamento della paziente a un’équipe composta da nutrizionisti, psicologi, psichiatri e medici internisti, che lavorano in sinergia per affrontare simultaneamente gli aspetti biologici, nutrizionali, psicologici e relazionali del disturbo.
Questo approccio permette di contenere i rischi medici legati alla malnutrizione, di accompagnare la paziente in un percorso di rieducazione alimentare, e al contempo di affrontare i vissuti più profondi di controllo, identità, perfezionismo e bisogno di riconoscimento, che sono al cuore della sofferenza anoressica.
In sintesi, l’eziologia dell’anoressia nervosa non può essere ridotta esclusivamente al rapporto madre-figlia, ma è chiaro che le dinamiche familiari, soprattutto quelle legate all’attaccamento, alla simbiosi affettiva e al controllo, rappresentano una componente centrale nella comprensione del disturbo.
Il corpo, il cibo e la magrezza diventano, in questo senso, simboli e strumenti attraverso cui la persona cerca di comunicare, resistere, separarsi e definirsi, spesso in assenza di altri mezzi emotivi e relazionali a disposizione.
Proprio in virtù del fatto che una parte significativa della letteratura sull’eziologia dell’anoressia nervosa sottolinea il ruolo delle dinamiche familiari, e in particolare il peso della relazione madre-figlia, molte delle psicoterapie d’elezione per i disturbi alimentari tendono a orientarsi verso approcci di tipo familiare.
In questo modello, la sofferenza alimentare non viene vista esclusivamente come un problema individuale, ma come l’espressione visibile di un disagio relazionale più ampio, spesso radicato nei legami affettivi più significativi.
Per questo motivo, i percorsi terapeutici che si rivelano più efficaci in determinati quadri clinici sono quelli che coinvolgono direttamente la famiglia, e in particolare la figura materna, quando questo si dimostra possibile e opportuno.
Va detto che questa impostazione rappresenta uno dei diversi filoni teorici presenti nella comprensione dell’eziologia dei disturbi alimentari.
Non pretende di spiegare ogni caso, né di offrire un modello universale, ma si è rivelata in molte circostanze una via terapeutica percorribile, utile e aderente alla realtà di alcune pazienti.
In particolare, nei contesti in cui l’anoressia si configura come una forma di comunicazione interrotta, di richiesta implicita di autonomia o di regolazione di un equilibrio familiare fragile, la terapia sistemico-relazionale può offrire uno spazio prezioso per ristrutturare le modalità di interazione e per aiutare ogni membro del nucleo a ridefinire il proprio ruolo in modo più funzionale e autentico.
È chiaro, tuttavia, che non in tutti i casi la componente familiare è determinante, né sempre la madre è coinvolta attivamente nel sintomo o nel suo mantenimento.
Ma proprio per la potenziale rilevanza del sistema di relazioni primarie nella genesi e nell’evoluzione del disturbo, la terapia familiare resta uno degli approcci consigliati, soprattutto nelle fasi iniziali del trattamento e nei casi in cui la paziente si trovi ancora all’interno del contesto familiare di origine.
Attraverso la ricostruzione del dialogo, il riconoscimento dei bisogni individuali e la riattivazione delle risorse familiari, questo tipo di percorso può costituire una leva terapeutica fondamentale nel promuovere il cambiamento e sostenere la guarigione.
Il Rifiuto del Cibo come Rifiuto Simbolico della Madre: la Prospettiva Psicodinamica
Il filone di pensiero secondo cui il ruolo materno e l’anoressia nervosa abbiamo una correlazione significativa, trova radici profonde anche nella tradizione psicodinamica e psicoanalitica, che ha ampiamente esplorato il significato simbolico del comportamento alimentare all’interno delle prime relazioni oggettuali, in particolare quella tra madre e figlia.
In questo contesto teorico, il corpo e il cibo non sono considerati semplicemente elementi concreti, ma diventano veicoli simbolici attraverso cui si esprimono vissuti affettivi profondi, dinamiche di dipendenza e autonomia, desideri di fusione e spinte di separazione.
In una prospettiva psicoanalitica, la madre assume un ruolo centrale nella costituzione del Sé corporeo e affettivo della figlia, specialmente nella prima infanzia, quando la relazione si struttura attorno al nutrimento, al contenimento emotivo e alla capacità di rispecchiare i bisogni del bambino.
Il rifiuto del cibo da parte della paziente anoressica può allora essere letto come un rifiuto simbolico della madre, o meglio, di ciò che la madre rappresenta: fusione, controllo, ingerenza, invasione, ma anche nutrimento, cura, presenza affettiva. In questa logica, l’atto anoressico si configura come un gesto di separazione estrema, un tentativo radicale di affermare la propria identità negando ciò che viene dall’“altro”, ciò che penetra e invade.
Il cibo, infatti, in questa prospettiva, non è semplicemente alimento, ma rappresenta il legame affettivo, l’amore materno interiorizzato, la dipendenza emotiva e la difficoltà a distinguere il confine tra il sé e l’altro.
Il rifiuto del cibo può quindi essere interpretato come una forma di rifiuto dell’intimità e della dipendenza, una negazione del bisogno, una volontà di chiusura. Il corpo magro diventa il luogo in cui si esercita il controllo, ma anche il campo di battaglia in cui si gioca il dramma dell’autonomia e della relazione.
Questa lettura simbolica, tipica della clinica psicodinamica, è coerente con l’idea che l’anoressia non sia semplicemente un disturbo del comportamento alimentare, ma una modalità di espressione del conflitto intrapsichico e relazionale.
In quest’ottica, la figura materna assume una valenza archetipica: è colei che nutre, ma anche colei da cui occorre emanciparsi per diventare soggetto autonomo.
Quando questa separazione non riesce a compiersi in modo fluido, può assumere forme estreme e disfunzionali, come appunto il sintomo anoressico.
Per questo motivo, anche nel modello psicodinamico e psicoanalitico, la madre è spesso al centro del lavoro terapeutico, non in termini colpevolizzanti, ma come figura relazionale da comprendere, rielaborare e mentalizzare, affinché la paziente possa recuperare un rapporto più integrato con il proprio corpo, i propri bisogni e la propria identità.
Questo articolo è rivolto prevalentemente a giovani donne che soffrono di anoressia nervosa e a madri che, spesso con dolore e confusione, si interrogano sull’origine del disturbo che ha colpito la propria figlia.
È a loro che desidera offrire uno spazio di riflessione, accoglienza e comprensione, consapevole che dietro ogni sintomo anoressico si nasconde una storia complessa, profonda, mai banale.
L’anoressia non è soltanto una questione di cibo o di peso: è un linguaggio del corpo, un grido silenzioso che chiede ascolto, un modo di esprimere qualcosa che, a parole, non riesce ad emergere.
Per questo, quando ci si trova a confrontarsi con una situazione simile – come figlie o come madri – è importante non rimanere sole nel tentativo di cercare una spiegazione o una via d’uscita.
È fondamentale scavare con delicatezza e competenza nelle radici profonde del disturbo, nelle sue componenti emotive, relazionali, simboliche e identitarie.
Ma questo può e deve avvenire con l’aiuto di professionisti della salute mentale, figure preparate e sensibili che abbiano una formazione specifica sui disturbi alimentari, e in particolare sull’anoressia.
Psicologi, psichiatri e psicoterapeuti esperti possono accompagnare con rispetto e metodo il percorso di comprensione, cura e trasformazione, sia per le ragazze coinvolte direttamente, sia per le loro famiglie.
Solo attraverso un lavoro condiviso e strutturato, che dia spazio ai vissuti individuali e alle dinamiche relazionali, è possibile trasformare la sofferenza in consapevolezza, e il sintomo in occasione di crescita e rinascita.