Burden del Caregiver: di cosa si tratta?

Tempo di lettura: 5 minuti

Indice dell'articolo
Burden del Caregiver come riconoscerlo?

Prendersi cura di una persona fragile, un genitore con demenza, un partner con una malattia cronica, un figlio con disabilità, un familiare con disturbo psichiatrico, è un atto di amore e responsabilità.

Ma la cura ha un costo: il caregiver burden (carico o “fardello” del caregiver).

Nelle prossime righe approfondiremo in maniera più approfondita questo argomento, spesso tabù e oggetto di giudizi.

Cosa si intende per caregiver?

Un caregiver è la persona che si prende cura in modo continuativo di un familiare o di un’altra persona non pienamente autosufficiente (per età, malattia, disabilità, disturbo psichico), occupandosi di attività pratiche (igiene, pasti, farmaci, visite, burocrazia), organizzazione (appuntamenti, trasporti, gestione della casa) e supporto emotivo.

Caregiver è quindi un genitore, con suo figlio, come è “normale” che sia, ma tanto spesso è anche un figlio con un genitore malato.

Spesso è un familiare non retribuito che svolge un lavoro di coordinamento tra persona assistita, sanitari, scuola/lavoro e servizi sociali.

Cos’è il burden del caregiver?

Il caregiver burden è l’insieme dei pesi complessivi (pratici, emotivi, fisici, cognitivi, relazionali ed economici) che si accumulano su chi assiste in modo continuativo una persona non autosufficiente.

Si tratta di un carico multidimensionale fatto di compiti di cura (igiene, farmaci, trasporti, burocrazia), vigilanza costante, sonno interrotto, rinunce lavorative/sociali, preoccupazioni croniche e responsabilità decisionali, con effetti sulla salute e sulla qualità di vita del caregiver.

Si chiama così perché “burden” in inglese significa peso, carico, fardello.

L’espressione rende l’idea di qualcosa che si porta sulle spalle: un peso non solo materiale, ma anche psicologico e organizzativo, che può crescere nel tempo e diventare gravoso se non riconosciuto.

Conseguenze del Burden del Caregiver

Il caregiver burden ha conseguenze ampie e intrecciate su mente, corpo, relazioni, lavoro e finanze.

Gli effetti del ricoprire questo ruolo possono riguardare:

  • Salute emotiva e mentale: umore depresso, perdita di interesse (anedonia), ansia e iperallerta, irritabilità, senso di colpa e di inefficacia, esaurimento emotivo (burnout), ritiro sociale.
  • Funzionamento cognitivo: difficoltà di concentrazione e memoria a breve termine, lentezza decisionale, pensiero “tutto o niente”, rimuginio.
  • Salute fisica: sonno interrotto o insufficiente, stanchezza persistente, dolori muscolo-scheletrici (schiena, spalle, collo), cefalee e disturbi gastrointestinali, peggior controllo di condizioni croniche, maggiore vulnerabilità alle infezioni.
  • Relazioni e vita familiare: conflitti di coppia e tra familiari, riduzione dell’intimità, isolamento, possibile “parentificazione” dei figli quando assumono compiti da adulti.
  • Lavoro, studio ed economia: assenze e presentismo, rallentamenti di carriera, riduzione dell’orario o rinuncia al lavoro, spese extra (cure, trasporti, adattamenti), minor tempo per formazione/aggiornamento.
  • Qualità della cura erogata: aumento del rischio di errori pratici (farmaci, appuntamenti), minore tolleranza allo stress assistenziale, tendenza a “fare al posto di” chi si assiste con perdita di autonomia.
  • Identità e senso di sé: restringimento dei ruoli (“sono solo un caregiver”), perdita di progettualità personale, percezione di ingiustizia e solitudine.
  • Indicatori spia osservabili: tempo per sé quasi nullo per settimane, energia percepita sotto 4/10, sonno sotto 6 ore/notte o frammentato, alimentazione disordinata, calo marcato di attività piacevoli, linguaggio auto-svalutante (“non ce la faccio”, “non servo”).

Conseguenze sulla salute mentale: la depressione del caregiver

La depressione del caregiver è una delle conseguenze più frequenti e sottovalutate del caregiver burden: quando il carico pratico, emotivo e organizzativo si prolunga, la somma di stress cronico, sonno frammentato, senso di responsabilità costante e isolamento sociale può trasformare la normale tristezza in una condizione di burnout o evolvere in un quadro depressivo vero e proprio.

A fare da detonatori di questa evoluzione, non inevitabile ma frequenti, ci sono fattori tipici dell’assistenza intensa: l’elevato livello di dipendenza della persona assistita, i comportamenti impegnativi (agitazione, disorientamento), l’assenza di una rete di supporto, le rinunce lavorative o economiche, un profilo personale improntato a iper-responsabilità.

La depressione del caregiver incide a catena: riduce l’energia disponibile per le attività essenziali, peggiora la qualità della presenza nelle interazioni assistenziali, aumenta il rischio di errori (e il conseguente senso di colpa) e “svuota” gli spazi identitari non legati alla cura.

Può emergere durante le fasi più pesanti della presa in carico, anche se possiamo dire dalla nostra esperienza che durante l’assistenza sono più comuni stress cronico e burnout ed è nel dopo, quando l’assistenza finisce che la depressione prende piede.


Depressione post-caregiving

La depressione post-caregiving è la condizione depressiva che può emergere dopo la fine di un periodo di assistenza intensa e prolungata.

Questa può comparire non solo come conseguenza del lutto in sé di una persona amata, ma anche perché l’impegno quotidiano si riduce bruscamente e rimane il vuoto.

Molti caregiver raccontano che, chiusa la fase dell’“emergenza perenne”, non arriva il sollievo atteso ma un senso di vuoto, tristezza persistente e perdita di direzione.

È come se l’adrenalina che teneva in piedi la macchina organizzativa si spegnesse di colpo, lasciando emergere la stanchezza accumulata.

Sul piano fenomenologico, la depressione post-caregiving si manifesta con umore depresso, anedonia, rallentamento o agitazione interiore, stanchezza non proporzionata, disturbi del sonno (che non si risolvono semplicemente perché “ora c’è più tempo”), riduzione della motivazione, difficoltà di concentrazione e un rimuginio centrato su decisioni passate (“ho fatto abbastanza?”, “dovevo scegliere altro?”).

Spesso si associano sentimenti di colpa paradossali: colpa per la speranza di sollievo provata quando l’impegno stava finendo, colpa per i momenti in cui si è pensato di “non farcela”, colpa per desideri personali messi a tacere.

Non di rado emergono anche sensazioni di estraneità rispetto a luoghi e routine “di prima”: tornare al lavoro, riprendere hobby o frequentazioni può apparire privo di senso o addirittura minaccioso, perché durante la fase di cura molte reti sociali si sono assottigliate e il tempo libero era quasi scomparso.

Le determinanti sono multiple.

C’è un fattore biografico (durata e intensità del caregiving, qualità del legame con la persona assistita, storia personale di umore e ansia), un fattore contestuale (quanto la cura ha “occupato” identità, orari, spazi, progetti, relazioni), e un fattore transizionale: il passaggio da giornate scandite da allarmi, visite, farmaci, burocrazia e responsabilità a giornate “aperte” richiede una riorganizzazione profonda.

Quando poi la fine della cura coincide con una perdita (lutto o separazione di fatto dalla quotidianità condivisa), il confine tra elaborazione del lutto e depressione può essere difficile da tracciare: nel lutto prevale l’onda emotiva legata alla relazione e alla mancanza; nella depressione si aggiunge un appiattimento generalizzato del piacere e dell’energia, una visione negativa di sé e del futuro che non si limita alla relazione perduta ma invade il resto della vita.

L’elemento centrale è la questione identitaria. Durante il caregiving, la persona ha spesso ridotto o sospeso altri ruoli (professionali, amicali, genitoriali in senso pieno, di coppia, ricreativi) per concentrare risorse su quello di caregiver. Quando questo ruolo viene meno, lo spazio lasciato libero non si riempie automaticamente: servono nuove routine, nuove appartenenze, nuove narrazioni di sé.

Nelle settimane successive alla fine della cura, molti descrivono automatismi che rimangono (svegliarsi agli orari delle terapie, controllare il telefono di notte, ascoltare “rumori” che non ci sono), accanto a un crollo dell’attenzione per sé e per ciò che prima risultava piacevole.

Dal punto di vista temporale, la depressione post-caregiving può esordire subito dopo la transizione, ma anche a distanza di settimane o pochi mesi, quando l’attenzione degli altri diminuisce e la persona si trova sola con il proprio paesaggio emotivo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Psichiatra-ADHD-Gincarlo-Giupponi

Supervisione scientifica:
Questo articolo è stato revisionato dal Dott. Giancarlo Giupponi, psichiatra e psicoterapeuta, vicedirettore del Servizio Psichiatrico di Bolzano e presidente regionale della Società Italiana di Psichiatria. Oltre a garantire l’accuratezza clinica dei contenuti, il Dott. Giupponi supervisiona la selezione dei test e dei questionari disponibili sul sito, verificandone la conformità agli standard scientifici internazionali (DSM-5, OMS, strumenti clinicamente validati).
Scopo del contenuto: divulgativo, non diagnostico.

Depressione, Psicologia generale, Stress

Condividilo

Pensi di soffrire di un disturbo d’ansia?

Fai ora il test di autovalutazione che può fornirti una prima indicazione sulla possibilità di intraprendere un percorso diagnostico per l’ansia.

Pensi di soffrire di depressione?

Fai ora il test di autovalutazione che può fornirti una prima indicazione sulla possibilità di intraprendere un percorso diagnostico per la depressione. 

Guarda le nostre recensioni

Pensi di soffrire di depressione?

Fai ora il test di autovalutazione che può fornirti una prima indicazione sulla possibilità di intraprendere un percorso diagnostico per la depressione. Bastano 2 minuti per avere il risultato.

Se ti è piaciuto l'articolo iscriviti alla newsletter per non perdere tutte le nostre comunicazioni.