Davvero gli autistici sono “tutti programmatori”, o è uno stereotipo?
In questo articolo analizziamo perché il coding possa risultare congeniale ad alcune persone nello spettro, ma anche perché generalizzare è fuorviante.
Davvero gli autistici sono bravi nel coding?
Tra gli stereotipi più diffusi sull’autismo ce n’è uno in particolare: “gli autistici sono tutti programmatori” o, in alternativa più ampia “gli autistici sono dei geni dell’informatica”: ma è un realtà o è uno stereotipo?
Si tratta di un’immagine che ha radici nello stereotipo dell’autistico asperger come “genio incompreso”, nei film e nei media, ma quanto ha fondamento nella realtà scientifica?
Esiste davvero una sovrarappresentazione significativa delle persone con autismo nei campi dell’informatica, del coding e della tecnologia, o è perlopiù un mito basato su qualche caso emblematico?
Cerchiamo di pensarci insieme.

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Che cos’è il “coding” e cosa comprende?
Per “coding” intendiamo la scrittura e la manipolazione di codice informatico: ideare, sviluppare, testare e manutenere software, applicazioni, script, algoritmi, sistemi backend, interfacce, automazioni, e tutto ciò che riguarda la programmazione.
Le competenze richieste possono spaziare da linguaggi come Python, Java, JavaScript, C/C++, fino a scripting più specialistico, automazione, sviluppo web, intelligenza artificiale, cybersecurity, ecc.
Il coding, in generale, è un’attività che:
- richiede pensiero logico-strutturato
- si basa su regole formali, sintassi e semantica rigide
- offre feedback relativamente immediato (il codice funziona o non funziona)
- può essere svolto in modo individuale o in team, con una componente di collaborazione modulare
- tradizionalmente presenta una minore richiesta di interazione sociale “live” rispetto ad altri ruoli (anche se oggi molti ambienti di sviluppo richiedono team, review, pair programming, ecc.)
Queste caratteristiche lo rendono un dominio “attrattivo” per soggetti che preferiscono certe modalità cognitive più strutturate, prevedibili e sistematiche.

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Caratteristiche del coding che possono essere congeniali a persone con autismo
Per comprendere perché molte persone nel mondo dell’autismo possono manifestare un interesse per la tecnologia o il coding è utile ragionare sulle aspetti del coding che, ipoteticamente, possono risultare più “compatibili” con modalità cognitive tipiche dello spettro autistico.
Ovviamente non è automatico né universale, ma può offrire spunti interpretativi.
- Pensiero sistemico, pattern e regole: una delle teorie più note relative all’autismo è la teoria empatia-sistematizzazione di Baron-Cohen: secondo questa visione, alcune persone con autismo tendono ad avere una spinta maggiore alla “systemising” (capacità di comprendere sistemi, regole, pattern) rispetto alla spinta empatica. Il coding è, per eccellenza, un’attività di “costruzione di sistemi”, dove la logica, l’ordine, la coerenza, il pattern ricorrente sono centrali. Per alcune persone autistiche, intravedere regolarità, schemi, automatismi può dare una sensazione di ordine e prevedibilità che altrimenti manca. (Baron-Cohen, S. Cognizione ed empatia nell’autismo. Dalla teoria della mente a quella del “cervello maschile estremo” (E. Bidetti, C. Calovi, trad.). Trento: Erickson, 2011. ISBN 978-8861378902 )
- Feedback chiaro e riduzione dell’ambiguità: quando scrivi codice, se c’è un errore di sintassi o di logica, il sistema lo segnala. Questo feedback chiaro e oggettivo può essere molto gratificante per chi preferisce lavorare con criteri ben delineati, in contrasto con ambiguità sociali o richieste implicite. In un ambiente sociale, le “regole” implicite possono essere opache e mutevoli, mentre con il codice le regole sono (quasi sempre) esplicite.
- Autonomia, concentrazione e ritmo personale: il coding permette, spesso, di lavorare in modo indipendente, con tempi e ritmi propri. Alcune persone con autismo preferiscono o tollerano meglio ambienti con minori interruzioni sociali, con stimoli controllabili e con la possibilità di “entrare in flusso” (flow). Questo può facilitare la concentrazione prolungata su compiti tecnici, rispetto a ambienti più caotici.
- Interesse speciale e iperfocus: molti soggetti nello spettro autistico manifestano interessi speciali profondi, cioè aree di conoscenza o attività in cui investono tempo, energia e attenzione maggiori della media. Se un individuo sviluppa un interesse speciale verso la tecnologia o i computer, è naturale che esplori il mondo del coding. Poi, essendo disciplina tecnicamente complessa, l’apprendimento può diventare un percorso di auto-sfida che si alimenta via via.
- Ridotta importanza iniziale delle competenze sociali: un tempo, il coding nella percezione collettiva era visto come un’attività solitaria, con pochissimo bisogno di comunicazione diretta. Anche se oggi questo è cambiato (team, code review, collaborazioni), per chi si avvicina è più facile “iniziare da solo”, costruire competenze tecniche e poi inserirsi progressivamente nei contesti sociali del lavoro.
Queste caratteristiche del coding possono spiegare perché, per alcune persone autistiche, il coding risulta attraente e “adattivo”. Ma non implicano necessariamente che la maggioranza degli autistici diventi programmatore.

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Autismo e programmazione: cosa dicono davvero i dati?
Adesso passiamo a ciò che sappiamo con evidenza, con cautela.
Un dato spesso citato è quello del report Stack Overflow Developer Survey 2019, in cui il 2,6 % degli intervistati ha dichiarato “Sono autistico / ho un disturbo dello spettro autistico”.
Questo dato viene spesso confrontato con la prevalenza stimata dell’autismo nella popolazione generale (tipicamente 1-2 %). Se fosse attendibile, il dato potrebbe suggerire una lieve sovrarappresentazione. Ma attenzione: ci sono molti caveat:
- il sondaggio è auto-selezionato e non rappresentativo dell’intera comunità degli sviluppatori
- molte persone autistiche non sono diagnosticate o non dichiarano pubblicamente la condizione
- il campione può presentare bias (chi è più “aperto” o attivo nelle community tech può essere anche più incline a dichiarare caratteristiche che “spiccano”)
- il 2,6 % è un dato rilevante, ma non enorme, e non supporta ipotesi estreme (es: “metà dei programmatori è autistica”)
Quindi quel dato da solo non basta a confermare uno stereotipo.
Dati occupazionali generali nell’autismo
È importante ricordare che, a livello globale, le persone con autismo tendono ad avere tassi di disoccupazione o sottoccupazione significativamente più elevati rispetto alla popolazione generalizzata, come suggerito in Autism spectrum disorder in the workplace: a position paper to support an inclusive and neurodivergent approach to work participation and engagement.
Per esempio citiamo il fatto che molti adulti con autismo hanno difficoltà nell’ingresso nel mercato del lavoro, e diversi studi evidenziano che le barriere sociali, ambientali e organizzative ostacolano l’occupazione stabile.
Questo suggerisce che, anche se esistono persone autistiche nel settore tech, non si tratta affatto di un percorso “automatico” o garantito, ma piuttosto di una combinazione di predisposizioni individuali, opportunità, supporti e adattamenti.
Spiegazioni plausibili: perché alcuni autistici sono programmatori?
Ora che abbiamo visto cosa sappiamo, e cosa non sappiamo, possiamo ragionare sulle possibili cause dell’attrazione (e del mito) tra autismo e coding.
- Interessi speciali e sviluppo autodidatta: un punto chiave è l’interesse speciale: molte persone nello spettro sviluppano interessi intensi in aree specifiche (musica, modelli, scienze, tecnologia, codici), e dedicano ore di esplorazione, pratica e approfondimento autonomo. Se uno di questi interessi è il computer, il software o la programmazione, è naturale che si maturi competenza nel tempo. Spesso apprendono da soli (autodidatti), sperimentano, smanettano, costruiscono prototipi personali, partecipano a community online, e accumulano esperienza reale prima ancora di un percorso formale. Questo percorso “dal basso” è tipico nelle discipline tecniche, e può far apparire che “l’autistico è nato per programmare”.
- Ridotta reattività sociale, spazio protetto nella tecnologia: alcune persone nello spettro autistico traggono sollievo da ambienti con stimoli sociali ridotti. Il settore IT, almeno in alcuni contesti, può offrire un ambiente relativamente prevedibile, meno verboso o confuso dal punto di vista sociale (maggiore uso di comunicazioni scritte, documentazioni, task chiari). Questo non significa che non ci siano interazioni, ma il “peso sociale” può essere diverso da ambienti più relazionali. Inoltre, lavorare in remoto, con flessibilità, può mitigare molte difficoltà legate a interazioni sociali “immediate”. Per alcune persone con autismo, queste condizioni sono preferibili e favoriscono la produttività tecnica.
- Selezione e autoscelta: una componente importante è selezionata: coloro che scoprono che il coding “funziona bene” per loro continuano a esplorarlo; chi non si trova a proprio agio smette. Questo processo di selezione naturale accentua la percezione che molti autistici siano programmatori, perché vediamo quelli che ci restano (successo), e non quelli che abbandonano la strada. È un bias visivo.
- Effetti di autodiagnosi e divulgazione: molti adulti nello spettro non sono diagnosticati fin da giovani. Alcune persone scoprono la propria neurodiversità in età adulta, magari dopo aver sviluppato una carriera tecnica. Questo significa che le statistiche “ufficiali” sottostimano il numero di autistici nei ruoli tecnici. In più, la cultura online tende a enfatizzare storie di “geni programmatori autistici” perché fanno presa, consolidando l’immagine dello stereotipo.

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Limiti, errori di interpretazione e sfide nell’uso dello stereotipo
Nel trattare questo tema con rigore clinico e informativo, è fondamentale evidenziare anche i rischi e gli equivoci.
- Stereotipi e pressioni disfunzionali: attribuire a tutti gli autistici una vocazione per l’informatica può essere dannoso: crea aspettative irrealistiche, senso di “fallimento” se non si è programmatori, e l’idea che “se non fai tech non vali”. È importante ribadire che l’autismo è una condizione eterogenea, con molti profili diversi.
- Bias di visibilità: chi ha successo in tech è visibile; chi fa altri lavori o attività meno “appariscenti” (anche validissime) è meno notato. Questo contribuisce alla percezione esagerata. Inoltre, le community tech sono molto attive online: è più probabile che chi è appassionato e integrato in queste community venga notato e raccontato.
- Effetto di “survivor bias”: chi sopravvive e “ce la fa” nel contesto tech è più presente nei racconti. Quelli che incontrano troppe difficoltà abbandonano e non figurano nella narrazione dominante
- Generalizzazione indebita: non possiamo estendere da casi eccellenti (programmatori con autismo) a tutta la popolazione autistica. Le statistiche diffuse (es. “metà dei programmatori è autistica”) sono quasi certamente esagerate o semplicemente false.

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