La “Lost Generation” dell’ADHD femminile: la Generazione X

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La "Lost Generation" dell’ADHD femminile: la Generazione X

Per Lost Generation s’intende quella fascia di donne della Generazione X con ADHD femminile che, per anni, non hanno ricevuto riconoscimento o supporto adeguato, rimanendo invisibili ai modelli diagnostici costruiti sugli uomini.

Negli ultimi anni, l’attenzione scientifica e clinica verso l’ADHD negli adulti è cresciuta in modo significativo.

Tuttavia, una parte fondamentale della popolazione è rimasta per lungo tempo invisibile: le donne, in particolare quelle nate tra gli anni ’60 e ’80, appartenenti alla cosiddetta Generazione X.

Molte di queste donne hanno vissuto per decenni senza una diagnosi di ADHD corretta, spesso considerate semplicemente “disorganizzate”, “ansiose” o “depressive”.

Quando, in età adulta, ricevono finalmente una diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione/Iperattività (ADHD), provano un misto di sollievo e dolore: sollievo per aver finalmente un nome che spiega anni di difficoltà, e dolore per tutto il tempo perduto.

I ricercatori definiscono questa coorte di persone come la “Lost Generation” – la generazione perduta.

Che cosa significa “Lost Generation” nell’ADHD

Il termine “Lost Generation” (generazione perduta) è stato adottato negli ultimi anni in ambito clinico e psicologico per descrivere un gruppo di persone che, pur presentando caratteristiche neurodivergenti evidenti, non ha ricevuto una diagnosi tempestiva.

In particolare, nella letteratura sull’ADHD e sull’autismo, la “Lost Generation” si riferisce soprattutto a donne nate prima che il riconoscimento dei fenotipi femminili di queste condizioni fosse adeguatamente compreso.

Per l’ADHD, questa generazione coincide spesso con le donne della Generazione X — nate approssimativamente tra il 1965 e il 1980 — che sono cresciute in un periodo in cui l’ADHD era percepito come un disturbo “da bambini maschi iperattivi”.

Le loro difficoltà, spesso più sottili e meno eclatanti, sono state ignorate, mal interpretate o diagnosticate come ansia o depressione.

Discrepanza di genere: rapporto maschi-femmine nell’ADHD

L’articolo “Influence of gender on attention deficit hyperactivity disorder in children referred to a psychiatric clinic” di Biederman et al. (2002) pubblicato sull’American Journal of Psychiatry (PMID: 11772687) rappresenta uno dei riferimenti fondamentali per comprendere la discrepanza diagnostica di genere.

Lo studio, una revisione e meta-analisi dei dati disponibili fino a quel momento, evidenziava come:

“Il rapporto tra maschi e femmine diagnosticati con ADHD durante l’infanzia si aggirava attorno a 10:1.”

In altre parole, per ogni 10 maschi diagnosticati con ADHD, c’era solo 1 femmina.

Questa sproporzione non riflette una reale differenza di prevalenza biologica, bensì una distorsione diagnostica legata a come i sintomi venivano definiti, osservati e interpretati.

Il rapporto è così sbilanciato perché:

  • I criteri diagnostici dell’ADHD (DSM-III e DSM-IV) erano basati su campioni di bambini maschi, spesso con comportamenti iperattivi e dirompenti.
  • Le ragazze, che tendono a manifestare forme più inattentive, internalizzanti e meno disturbanti, non attiravano l’attenzione degli insegnanti o dei genitori.
  • I comportamenti femminili venivano spesso interpretati come tratti caratteriali (“è distratta”, “è sognatrice”, “è ansiosa”) invece che come sintomi di un disturbo neurobiologico.

Il risultato? Migliaia di bambine e ragazze sono cresciute senza diagnosi, sviluppando strategie di compensazione che spesso hanno portato a burnout, ansia cronica, depressione e bassa autostima in età adulta.

Il concetto di “fenotipo” nell’ADHD: maschile vs femminile

Per comprendere la “Lost Generation” femminile, è fondamentale introdurre il concetto di genotipo e fenotipo.

Sebbene l’ADHD sia un disturbo del neurosviluppo con una forte componente genetica, il modo in cui si manifesta può variare notevolmente da persona a persona.

Il genotipo rappresenta l’insieme delle caratteristiche genetiche e biologiche che determinano la predisposizione al disturbo.

In altre parole, è la “base invisibile”, comune a maschi e femmine, che influenza il funzionamento neurochimico, in particolare dei sistemi dopaminergici e noradrenergici coinvolti nei processi attentivi e nel controllo degli impulsi.

Il fenotipo, invece, indica l’espressione osservabile del disturbo: il modo in cui i sintomi si manifestano concretamente nel comportamento, nell’emotività e nella vita quotidiana.

È proprio a livello fenotipico che emergono le principali differenze di genere.

Nel caso dell’ADHD, parliamo quindi del fenotipo clinico, cioè il modo in cui i sintomi si esprimono nel comportamento, nelle emozioni e nella vita quotidiana.

  • Negli uomini, il fenotipo più tipico è iperattivo-impulsivo: comportamenti dirompenti, agitazione motoria, difficoltà nel rispetto delle regole e tendenza a essere notati in contesti scolastici o sociali.
  • Nelle donne, invece, prevale un fenotipo inattentivo o misto, caratterizzato da distrazione, disorganizzazione, difficoltà nella gestione del tempo e forte sensibilità emotiva.

Queste differenze non implicano un genotipo differente, ma riflettono diverse modalità di espressione di uno stesso substrato neurobiologico.

Il problema è che i criteri diagnostici dell’ADHD (e non solo) storicamente sono stati costruiti sul fenotipo maschile, lasciando fuori una larga fetta di donne con sintomi ADHD meno visibili ma altrettanto invalidanti.

Il fenotipo maschile classico dell’ADHD

Nei maschi, il fenotipo più studiato e riconosciuto storicamente è quello iperattivo-impulsivo, caratterizzato da:

  • agitazione motoria evidente;
  • comportamenti impulsivi e oppositivi;
  • difficoltà nel controllo della rabbia;
  • disturbo del comportamento associato.

Questo è il fenotipo su cui si sono costruiti i criteri diagnostici tradizionali.

Il fenotipo femminile dell’ADHD

Le donne e le ragazze con ADHD, invece, tendono a presentare un fenotipo inattentivo o misto, più sottile e spesso mascherato:

  • disorganizzazione cronica, difficoltà nella gestione del tempo e delle priorità;
  • distrazione e mente “sempre in movimento”;
  • difficoltà a completare i compiti senza un contesto di forte urgenza;
  • elevata sensibilità emotiva e tendenza a interiorizzare la frustrazione;
  • mascheramento sociale e desiderio di conformarsi.

Questo fenotipo femminile, meno appariscente, ha portato alla sistematica sottodiagnosi delle donne per oltre trent’anni.

La Generazione X: il cuore della “Lost Generation” ADHD

Le donne nate tra il 1965 e il 1980 sono oggi tra le più rappresentative di questa “generazione perduta”.

Durante la loro infanzia:

  • l’ADHD era considerato un disturbo esclusivamente infantile e maschile;
  • la neurodiversità femminile non era ancora compresa;
  • i manuali diagnostici e i protocolli clinici erano modellati su popolazioni maschili.

Molte di loro sono state bambine “brave ma disorganizzate”, adolescenti “lunatiche” e giovani donne che “non riescono a concentrarsi”.

In età adulta, sono diventate professioniste o madri sopraffatte, spesso con diagnosi errate di depressione o disturbo d’ansia generalizzato.

Il fatto che oggi esista la possibilità di una diagnosi di ADHD in età adulta, sebbene si tratti di un disturbo del neurosviluppo che idealmente dovrebbe essere identificato durante l’infanzia, ha permesso a una parte di questa popolazione “perduta” di emergere.

È stata proprio l’apertura alla valutazione e diagnosi dell’ADHD negli adulti, sia nei maschi che nelle femmine, a consentire di ridurre — almeno in parte — il marcato divario di genere che per decenni aveva caratterizzato le stime diagnostiche.

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Supervisione scientifica:
Questo articolo è stato revisionato dal Dott. Giancarlo Giupponi, psichiatra e psicoterapeuta, vicedirettore del Servizio Psichiatrico di Bolzano e presidente regionale della Società Italiana di Psichiatria. Oltre a garantire l’accuratezza clinica dei contenuti, il Dott. Giupponi supervisiona la selezione dei test e dei questionari disponibili sul sito, verificandone la conformità agli standard scientifici internazionali (DSM-5, OMS, strumenti clinicamente validati).
Scopo del contenuto: divulgativo, non diagnostico.

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