Nel trattamento farmacologico del Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD), i farmaci stimolanti – come il metilfenidato o le anfetamine – rappresentano da tempo la terapia d’elezione, grazie alla loro efficacia nel migliorare l’attenzione, il controllo degli impulsi e la regolazione comportamentale.
Tuttavia, nella pratica clinica, non è raro osservare pazienti con diagnosi di ADHD che ricevono invece antipsicotici, una scelta terapeutica che solleva diverse questioni sia di tipo diagnostico che farmacologico.
Una prima spiegazione di questo fenomeno risiede negli errori diagnostici, particolarmente frequenti quando il disturbo non viene riconosciuto e trattato in età evolutiva.
In età adulta, l’ADHD può essere facilmente confuso con altri quadri clinici, come ad esempio il disturbo bipolare, con cui condivide alcune manifestazioni superficiali (impulsività, labilità emotiva, agitazione).
In questi casi, il paziente potrebbe ricevere un trattamento orientato alla diagnosi presunta, come una terapia con antipsicotici atipici, spesso impiegati nella stabilizzazione dell’umore.
Un secondo motivo potrebbe essere l’impiego off-label degli antipsicotici.
In particolare, nei casi più gravi o resistenti ai trattamenti convenzionali, può emergere la tentazione di utilizzare classi di farmaci differenti, anche se non approvate specificamente per il trattamento dell’ADHD.
Questa prassi pone una contraddizione farmacologica evidente: mentre gli stimolanti agiscono potenziando la trasmissione dopaminergica – meccanismo centrale nella patogenesi del ADHD – gli antipsicotici operano in senso opposto, bloccando i recettori dopaminergici.
Come può, dunque, un farmaco che riduce la disponibilità di dopamina apportare benefici in un disturbo che nasce da un suo deficit?
Lo capiremo nel corso di questo articolo dedicato alla psicofarmacologia dell’ADHD.
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Apparente Contraddizione: Antipsicotici e ADHD tra Superficie e Complessità Neurofarmacologica
Come già anticipato nell’introduzione, l’utilizzo degli antipsicotici nei pazienti con diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività non è affatto raro.
Si tratta di una prassi osservabile sia in ambito clinico che in letteratura, sebbene non sia pienamente in linea con le indicazioni terapeutiche ufficiali.
Questo fenomeno può derivare da due principali circostanze: da un lato, errori diagnostici – spesso dovuti a un mancato riconoscimento precoce del disturbo – e, dall’altro, da scelte cliniche deliberate, come l’impiego off-label degli antipsicotici per gestire sintomi associati o particolarmente resistenti.
Ad un primo sguardo, questa scelta terapeutica può apparire contraddittoria.
Gli psicostimolanti, infatti, rappresentano la prima linea di trattamento dell’ADHD proprio per il loro effetto di potenziamento della trasmissione dopaminergica e noradrenergica, in particolare a livello della corteccia prefrontale, un’area cruciale per l’attenzione selettiva, la memoria di lavoro e la regolazione dell’impulsività.
Al contrario, gli antipsicotici – soprattutto quelli tipici – sono noti per la loro azione antagonista sui recettori dopaminergici D2, riducendo la disponibilità sinaptica di dopamina. In base a questa opposizione meccanicistica di fondo, sembrerebbe insensato utilizzare un antipsicotico per trattare un disturbo dopamino-dipendente come l’ADHD.
Tuttavia, questa visione è eccessivamente semplificata e non rende giustizia alla complessità della psicofarmacologia contemporanea.
Se da un lato è vero che, in generale, i farmaci stimolanti aumentano la disponibilità di dopamina nelle sinapsi, e gli antipsicotici la riducono, dall’altro è fondamentale comprendere che gli effetti farmacodinamici non sono uniformi in tutte le aree cerebrali, né si esauriscono nel meccanismo d’azione primario del farmaco.
Esistono infatti reazioni secondarie, adattamenti recettoriali e azioni regionalmente specifiche, che possono spiegare apparenti paradossi clinici.
Gli antipsicotici di seconda generazione – o atipici – presentano un profilo farmacologico molto più complesso rispetto a quelli tipici. Pur mantenendo un’azione antagonista sui recettori D2, questi farmaci agiscono anche su un’ampia gamma di altri target recettoriali, tra cui quelli serotoninergici (come i 5-HT2A e 5-HT1A), noradrenergici e colinergici.
Un punto cruciale per spiegare il loro effetto “benefico” in alcuni casi di ADHD è rappresentato dalla modulazione dopaminergica selettiva che questi farmaci possono esercitare a seconda della regione cerebrale.
È stato osservato che molti antipsicotici atipici, grazie all’antagonismo dei recettori 5-HT2A, aumentano indirettamente la trasmissione dopaminergica nella corteccia prefrontale, un’area chiave nei circuiti cognitivi dell’attenzione e dell’autocontrollo.
Questo avviene perché l’inibizione del recettore 5-HT2A riduce il tono inibitorio serotoninergico sui neuroni dopaminergici corticali, portando a un rilascio aumentato di dopamina in queste specifiche regioni.
Al contrario, nelle aree mesolimbiche, coinvolte nei sintomi positivi della psicosi, l’azione antagonista sui D2 rimane predominante, contribuendo alla riduzione dell’attività dopaminergica in tali circuiti.
Questa dissociazione funzionale permette quindi agli antipsicotici atipici di ridurre l’iperattività dopaminergica là dove è eccessiva (come nella schizofrenia), ma di favorire la dopaminergia là dove è carente – come appunto nella corteccia prefrontale dei pazienti con ADHD.
Questo spiega perché, nonostante la loro apparente “contrarietà” rispetto agli stimolanti, alcuni antipsicotici atipici possano avere un effetto positivo su determinati sintomi dell’ADHD.
In particolare, si è osservato un possibile beneficio su aspetti come l’impulsività, l’aggressività, l’instabilità emotiva e la disorganizzazione cognitiva – sintomi che spesso coesistono con l’ADHD, ma che possono anche essere confusi con tratti di disturbi dell’umore o della personalità.
Inoltre, in alcuni pazienti che non tollerano gli stimolanti per effetti collaterali importanti (ansia, insonnia, aumento della pressione arteriosa), gli antipsicotici possono rappresentare un’opzione terapeutica di seconda linea, specialmente in presenza di comorbidità psichiatriche che giustifichino il loro utilizzo (come disturbi del comportamento, disturbi dello spettro autistico, tic, o tratti psicotici).
Va sottolineato che l’effetto terapeutico degli antipsicotici nell’ADHD non è universale né sistematicamente efficace, e che l’uso off-label va attentamente valutato in funzione del profilo individuale del paziente, dei rischi metabolici e neurologici del farmaco, e della presenza di comorbidità.
È fondamentale una valutazione psichiatrica approfondita e personalizzata, così come il monitoraggio nel tempo degli esiti clinici.
La psicofarmacologia dell’ADHD, quindi, non può essere ridotta a una dicotomia tra stimolanti “dopaminergici” e antipsicotici “antidopaminergici”.
La realtà neurobiologica è molto più articolata: l’efficacia clinica di un farmaco dipende dal suo profilo recettoriale, dalla distribuzione regionale dei suoi effetti e dalla specificità del quadro sintomatologico individuale.
L’impiego degli antipsicotici nell’ADHD, sebbene non ortodosso, può trovare giustificazione in alcuni casi, a patto che venga sempre guidato dalla conoscenza scientifica, dal buon senso clinico e dalla centralità del paziente.
Quindi, se nel tuo percorso clinico hai ricevuto una diagnosi anni fa che non teneva conto del tuo ADHD, e ti è stato prescritto un antipsicotico che ha avuto effetto, non devi preoccuparti né mettere in dubbio la diagnosi definitiva di ADHD. È perfettamente possibile – e ha una sua spiegazione farmacologica – che quel farmaco ti abbia dato beneficio, anche se apparentemente “non indicato” per l’ADHD.
Allo stesso modo, se hai ricevuto da poco una diagnosi di ADHD e ti è stato prescritto un antipsicotico, non significa che tu sia psicotico, o che la diagnosi sia sbagliata. In molti casi, lo psichiatra specializzato in ADHD può decidere di utilizzare un farmaco off-label, ovvero fuori dalle indicazioni ufficiali, anche per trattare sintomi specifici dell’ADHD come impulsività, irritabilità, aggressività o difficoltà a dormire. Questo è particolarmente comune quando:
- Non si tollerano bene gli stimolanti
- Ci sono disturbi associati (comorbidità)
- Ci si trova in una fase iniziale del trattamento e si vuole agire su sintomi specifici
- Si è già in trattamento con quell’antipsicotico e il medico valuta opportuno proseguire
In ogni caso, la tua diagnosi non è invalidata dal tipo di farmaco che ti è stato prescritto, e non devi sentirti confuso o preoccupato.
La psicofarmacologia è una materia complessa, e spesso gli stessi farmaci possono essere utilizzati per scopi molto diversi.
Il punto importante è che tu abbia ricevuto una diagnosi chiara, che i tuoi sintomi siano seguiti con attenzione e che tu senta di avere una comunicazione aperta con il tuo specialista.
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